L'arrivo di un fratellino

L’ arrivo di un fratellino, è un evento sicuramente di gioia e felicità per mamma e papà, ma non sempre è vissuto allo stesso modo dal bimbo più grande, che può pensare che il nuovo arrivato sia un intruso, da cui mettersi in guardia e entrare in battaglia per accaparrarsi l’affetto e, soprattutto, l’attenzione dei genitori. Come possiamo quindi preparare il primogenito a quello che per lui sarà senz’ altro un cambiamento epocale?
Come spiegare a un bambino la nascita del fratellino?
Come prepararlo all’evento? Come gestire la gelosia e le tensioni che,
inevitabilmente, all’inizio insorgeranno? Proviamo a rispondere a queste domande…
La nascita del secondo bambino rappresenta la forma di gelosia più comune che possa manifestarsi in una famiglia. E’ inevitabile, di certo non possiamo pretendere di poterla prevenire del tutto, ma è di fondamentale importanza
cercare di comprenderne le caratteristiche peculiari ed evitare le situazioni
che potrebbero peggiorarla. Gestire in maniera corretta la gelosia del vostro
bambino può aiutarlo a trasformare un periodo per lui molto difficile in momenti
di gioia e partecipazione.
Alcuni indizi e manifestazioni di gelosia possono essere, per esempio, cominciare
a regredire in abilità precedentemente acquisite, espressioni di ostilità e risentimento, rancore, eccessiva dipendenza. La gelosia si manifesta a causa di un’emozione di paura e insicurezza. Il bambino può temere di essere meno amato e meno considerato rispetto al nuovo arrivato.
Può sentirsi insicuro del suo rapporto con i genitori, in modo particolare con la
mamma.
Ecco dei consigli utili per preparare il primogenito all’arrivo di un fratellino.
In gravidanza:
più il primogenito è piccolo, più è meglio aspettare prima di dargli la notizia del
nuovo arrivo.
Se ha meno di due anni, è sufficiente spiegargli che nella pancia della mamma sta crescendo un bambino nel momento in cui la pancia comincia a ben delinearsi e si avvertono i primi movimenti del feto. La cosa migliore sarebbe fargli vedere dei libri illustrati sul tema o ripercorrere album di foto di quando lui stesso era un neonato.
Una volta comunicata la notizia con parole semplici è bene coinvolgere il bambino nei preparativi pratici, come l’acquisto dei vestitini o l’allestimento della culla. Gli servirà ad assimilare in anticipo l’idea. L’importante è farlo con gradualità.
Se il primogenito invece ha più di quattro o cinque anni non dovreste tenergli
nascosto niente, perché i bambini di quella età capiscono molto di ciò di cui discutono gli adulti. Quando dopo quattro mesi la gravidanza è ormai certa bisogna comunicarlo al bambino.
Il momento del parto:
Potete spiegate chiaramente a vostro figlio che andrete all’ospedale per avere il bambino, che (il papà, i nonni, una zia…) si occuperanno di lui, che lui starà bene e che starete bene anche voi, che potrà venire all’ospedale a trovarvi e che tornerete a casa dopo qualche giorno.
Se è possibile, salutate il bambino prima di andare all’ospedale, ma se sta
dormendo e non c’è la necessità di svegliarlo, lasciatelo dormire. In questo caso,

potete lasciargli un biglietto che possa essergli letto quando si sveglierà,
spiegando dove siete e quando potrà venirvi a trovare.
E’molto importante per il bambino, specie se ancora piccolo,venire all’ospedale,
in modo tale da avere un’immagine del posto in cui siete.
All’ospedale, non costringetelo subito a vedere il fratellino, lasciate che prima si
senta a suo agio e abbia il tempo di dirvi come sta e che cosa gli è successo
mentre non c’eravate.
Al neonato arrivano generalmente molti regali, mentre ci si ricorda raramente
del bambino più grande.
Avere nel lettino un regalo da dargli, che possa simbolicamente essere da parte del neonato, favorirà l’instaurarsi di un rapporto positivo tra i due bambini. Cercate di fare in modo che non si verifichino situazioni in cui il papà, i nonni e altri colmano di attenzioni il bambino piccolo mettendo da parte il più grande.
La famiglia è cresciuta:
una volta tornati a casa è importante far comprendere al primogenito che l’affetto e le cure che mamma e papà dedicano al nuovo nato sono le stesse che gli sono state dedicate quando era altrettanto piccolo e indifeso. Per aiutarlo a comprendere meglio quello che sta succedendo, potete mostrargli foto, video, registrazioni che lo mostrano nei primi mesi anni di vita, quando
ancora era neonato. In modo che possa rivedere se stesso nell’intruso che ora
impegna tanto i suoi genitori.
Il papà può avere un ruolo fondamentale nel far sentire il bambino importante ed amato, concedendogli privilegi speciali come, per esempio, un giro in macchina o in centro, o permettendogli di andare a letto un po’più tardi del solito.
Non c’è da stupirsi se il bambino ha alcuni comportamenti tipici di quando era
più piccolo, come ricominciare a succhiarsi il pollice, volere il biberon, parlare come un bimbo più piccolo o volersi mettere il pannolino. Tutto questo è, infatti, normale, permettetegli di farlo senza dirgli che è ora che diventi grande. Tenerlo in braccio come un bimbo piccolo o cullarlo, sono comportamenti che lo rassicurano molto, inoltre, sapere che qualche volta gli è concesso “essere un bambino piccolo”favorirà il processo di crescita.
E’ inoltre importante parlare con il bambino delle emozioni che prova, mostrando di capire sia le sue emozioni positive, sia quelle negative. Dirgli frasi del tipo: “Sì, capisco che è fastidioso dover aspettare”, o “Sei arrabbiato perché la mamma dedica molto tempo al tuo fratellino”, sono espressioni che gli fanno sentire di essere compreso da voi. Quando se ne renderà conto, smetterà di mettere in atto comportamenti finalizzati ad esprimere le sue emozioni negative. Infine sarà bene coinvolgere il figlio più grande nell’accudimento del piccolo, se ha voglia di farlo, insegnandogli a prendersene cura e affidandogli piccoli incarichi che non solo lo facciano sentire parte della famiglia, ma addirittura un membro indispensabile della stessa.

Tablet VS Aria aperta

Il gioco durante i primi anni di vita è una parte fondamentale dell’apprendimento e quindi, dello sviluppo, è il mezzo tramite cui i bambini si rendono conto di quello che li circonda e del loro rapporto con gli altri. Il gioco fornisce loro un mezzo non stressante, con cui a proprio ritmo, poter mettere in pratica nuove abilità, assumersi rischi, esprimere ed esplorare la creatività, l’indipendenza, la curiosità e la soluzione di problemi. Per un bambino, il gioco è il superamento di sfide e divertimento, l’apprendimento di nuove strategie per superare gli ostacoli di ogni giorno.

Oggi, i bambini trascorrono la maggior parte del tempo libero al pc, al tablet, ai videogiochi o davanti alla tv. In quella che ad oggi può essere definita “generazione touch”, si nota come bambini anche molto piccoli dimostrano una capacità precoce di apprendimento nell’uso delle nuove tecnologie e dei dispositivi tattili. Li utilizzano con molta naturalezza e senza difficoltà, imparano l’alfabeto, a contare, apprendono nuovi vocaboli, giocano e disegnano. Un quesito ancora aperto è in che modo l’uso delle nuove tecnologie potrebbe incidere sullo sviluppo cognitivo del bambino e se questo sia positivo o negativo. L’uso della tecnologia, fin dalla più tenera età, da un lato è molto utile per disegnare, giocare e imparare, ma dall’altro lato l’uso frequente delle nuove tecnologie non sembra aiutare lo sviluppo delle capacità sociali del bambino. Infatti, i bambini “rapiti” dallo strumento digitale, molto spesso, tendono ad isolarsi e questo riduce le possibilità e le conseguenti capacità di interagire e di comunicare con gli altri.

Un comportamento utile da parte dei genitori potrebbe essere quello di avere consapevolezza dei probabili pericoli di un utilizzo esagerato del digitale, tuttavia non privando il bambino dell’esposizione alle nuove tecnologie, ma ponderando giusti tempi e modalità del loro uso. I genitori dovrebbero accompagnare e vigilare l’esperienza digitale, affinché le nuove tecnologie possano essere strumento positivo e magari di ausilio per lo sviluppo, anziché una dipendenza.

Altrettanto importante è permettere che giochino con altri bambini. Quando i bambini giocano fuori, all’aria aperta e con i loro amici, non vi è limite alla loro immaginazione. I bambini a cui viene concesso uno spazio di libertà creano i propri giochi, ne definiscono la dinamica e stabiliscono persino regole che sono frutto della mediazione con i propri pari.

Dare loro l’opportunità di giocare liberamente significa permettere loro di sviluppare creatività e immaginazione.

IperProtezione

Un controllo costante, psicologico, sui bambini può limitare la loro
indipendenza e può farli sentire meno capaci di regolare il proprio
comportamento in base alle situazioni.

Autonomia e indipendenza, sono capacità individuali chiave che il bambino
deve gradualmente imparare a sperimentare e può farlo solo se i genitori gli
lasciano la giusta libertà per esplorare il mondo circostante.

L’iperprotezione si può manifestare sottoforma di preoccupazione da parte del
genitore circa la possibilità che accada qualcosa di negativo al bambino.
Il genitore percepisce il mondo come pauroso e pericoloso e tende a stare in
allerta non appena il figlio si allontana o fa qualcosa da solo. La paura si
trasmette al bambino attraverso la percezione dell’ansia del genitore,
attraverso la sua presenza costante nelle situazioni nuove e attraverso frasi
come “fai attenzione! Non allontanarti”.
In questo modo il bambino sviluppa un senso di vulnerabilità che può
riguardare l’aspettativa che l’ambiente sia pericoloso o che i pericoli possano
arrivare dal proprio corpo (malattie, problemi fisici ecc..). Il bambino può
inoltre sviluppare una fobia per tutto ciò che è nuovo.
Se dovessimo trasformare quanto detto in una convinzione potremmo dire:
“l’ambiente è pericoloso, per questo i miei genitori mi stanno sempre vicino,
da solo non saprei affrontare e superare questi pericoli”.

Un’altra forma di iperprotezione, nasce invece dal bisogno del genitore di
proteggere il bambino da ogni frustrazione.
In questo caso il genitore si sostituirà al bambino (e poi all’adolescente) nella
risoluzione dei problemi e si impegnerà a non fargli provare emozioni
spiacevoli legate agli insuccessi e alle difficoltà.
Il bambino apprenderà la dipendenza dagli altri e si aspetterà un costante
sostegno e aiuto dagli altri ogni volta che si troverà in difficoltà. Inizierà a
percepirsi come incapace di affrontare i problemi da solo.
Proviamo anche in questo caso a trasformare quanto detto in una
convinzione: “i miei mi stanno sempre vicino, senza di loro non potrei risolvere
i problemi, sono fragile e incapace”. Se mamma e papà, sono sempre li a
disposizione e pronti a correre ad ogni richiesta, i bambini non impareranno
ad utilizzare ingegno e creatività e da futuri adolescenti non sapranno come
risolvere autonomamente i propri problemi; faticheranno quindi a sviluppare
una sana autostima che li aiuti nella vita a credere in loro stessi e ad
affrontare le difficoltà.

Sin da piccoli è quindi importante che i genitori impongano ai bambini regole e
responsabilità adatti alla loro età, perché hanno la funzione di farli muovere
autonomamente in uno spazio sicuro; i genitori devono allo stesso tempo
saper dar loro gli strumenti necessari affinché essi sappiano affrontare
e risolvere i loro problemi da soli. Ad esempio invece di versare l’acqua al
vostro bambino perché “è piccolo, da solo non ce la fa e sicuramente la
rovescerà”, mettiamo in tavola una bottiglietta piccola che possa facilmente
gestire in autonomia. In altre parole, evitiamo che chieda continuamente a noi
di versare l’acqua per lui e che questa divenga un’abitudine che sarà poi
difficile da scardinare.

Affidare una responsabilità rendendo il compito raggiungibile permette al
bambino di imparare a saper contare sulle proprie capacità e di sviluppare
una visione positiva di sé.

Un altro importante aspetto da considerare quando si parla di iperprotezione è
quello relativo alla capacità dei bambini di far fronte alle frustrazioni.

Genitori che accorrono ad ogni richiesta per tenere lontano i propri figli dalle
emozioni negative, che danno loro tutto quello che chiedono nel momento in
cui lo chiedono, non aiutano i propri figli ad accettare che le cose nella vita
non vanno sempre come si desidera e contribuiscono alla crescita di ragazzi
emotivamente fragili.

Infine possiamo affermare che l’iperprotezione mina anche l’ apprendimento
in quanto questo avviene attraverso tentativi ed errori e se al bambino non
viene lasciato sperimentare anche il fallimento, gli viene tolta l’opportunità di
apprendere dai propri comportamenti.
L’iperprotezione in realtà nasce da un bisogno dei genitori: ridurre il proprio
timore che gli accada qualcosa, soddisfare il proprio bisogno di controllo o
sentire di essere stati genitori ideali.
Il bambino, infatti, ha certamente bisogno di protezione ma allo stesso tempo
gli si deve permettere di esplorare l’ambiente in modo autonomo pur facendo
affidamento sulla presenza del genitore.

Alcuni piccoli suggerimenti utili ad abbandonare la strada dell’ iperprotezione
e contribuire così allo sviluppo di un’autostima positiva nei vostri figli
potrebbero essere:

• Lasciare che i bambini sperimentino oltre alle emozioni positive anche
quelle negative date da fallimenti e delusioni; lasciare che si prendano
dei rischi (ovviamente sotto il vostro controllo) e che risolvano da soli
alcuni problemi;
• Dare loro obiettivi realistici e lasciare che ne siano responsabili;
• Permettere di prendere delle decisioni per renderli consapevoli delle
conseguenze delle proprie scelte
• Imparare a dire di no e ad accettare la disapprovazione e le reazioni
emotive dei bambini.
• Non concedere sempre tutto in modo che possano ancora coltivare dei
sogni e non solo avere una lista di desideri da soddisfare.

Le basi per lo sviluppo del nostro bambino

I primi tre anni di vita di un bambino sono importantissimi per mettere le basi di un attaccamento sicuro e per favorire lo sviluppo di abilità motorie, linguistiche e cognitive fondamentali per la vita futura dei nostri figli.

Ma quando si parla si attaccamento sicuro cosa si intende esattamente?
Il bambino, soprattutto quando è molto piccolo necessita una serie di attenzioni che devono essergli garantite in primis dalla madre con la quale il neonato da subito stabilisce un rapporto privilegiato definito legame d’attaccamento.

Una relazione di attaccamento si definisce per la presenza di tre caratteristiche chiave:
1) Ricerca di vicinanza ad una figura preferita
2) L’effetto di una base sicura
3) Protesta o fatica per la separazione

Il modo in cui le figure di riferimento rispondono alle richieste del bambino influenzano notevolmente il modo in cui il bambino si rapporterà al mondo esterno, e ai rapporti interpersonali.
Per questo è importante riconoscere le fasi più importanti della crescita e dare suggerimenti su come e quando intervenire per sostenere un legame sicuro di attaccamento.

Dott.sa Elisa Abbate

Tappe dello sviluppo psicofisico del bambino - La Nascita (cure, allattamento e nanna)

Già dopo pochissimi giorni dalla nascita i neonati hanno grande interesse per tutte le forme che assomigliano a un volto. I primi contatti visivi, soprattutto con quello della mamma sono molto importanti per sviluppare con il piccolo un attaccamento sicuro.
In questa fase il bambino è assolutamente dipendente dall’ambiente circostante e vive in simbiosi con la mamma, la quale ha il compito di capire e soddisfare i suoi bisogni attraverso le cure. Tali cure rispondono essenzialmente a bisogni fisiologici, non sono fine a se stesse ma rappresentano in ogni dettaglio fatti psicologici. E’ molto importante il modo in cui la mamma prende in braccio il bambino, lo guarda, gli parla, gli sorride o lo consola.
Se queste cure sono accompagnate da empatia, calore e coinvolgimento emotivo favoriscono l’instaurarsi di una base sicura di attaccamento.

Anche l’allattamento è un momento molto importante per costituire le basi di un attaccamento sicuro: all’inizio ci possono essere delle difficoltà e il neonato affamato potrebbe cadere preda dell’agitazione e mostrare un comportamento di difficile comprensione per la neomamma (pianti disperati, rifiuto del cibo). Non bisogna scoraggiarsi o farsi prendere dal panico, ma cercare di calmarlo con pazienza, confortarlo e aiutarlo a superare l’agitazione. “La sensibilità del genitore nel rispondere in modo adeguato ai disagi del piccolo è uno dei fattori fondamentali per creare un attaccamento sicuro”.

Un modo per poter calmare il proprio bambino potrebbe essere guardarlo negli occhi, parlargli con voce calma, tenerlo stretto tra le braccia… In questo modo gli si infonde la sicurezza necessaria per superare il brutto momento.

Inoltre il modo in cui i genitori fin dalla nascita gestiscono l’addormentamento del figlio esercita un influsso importante e duraturo sui suoi ritmi di sonno.
La speranza dei genitori, per esempio, che un neonato dorma tutta la notte è poco realistica perché il suo orologio biologico funziona in modo diverso rispetto a quello di un adulto. Inizialmente i ritmi di veglia e sonno di un neonato si protraggono lungo il giorno e la notte senza distinzione, per poi organizzarsi in una serie di pisolini diurni e un sonno notturno più lungo.
Nel primo anno di vita, dunque, è normale che un bimbo si svegli spesso di notte: per favorire il sonno del bambino è farsi un’idea precisa di come dorme, individuare una sorta di routine per capire cosa potrebbe essere ideale per rassicurare e tranquillizzare il bambino in vista della nanna.

Alcune strategie potrebbero essere:
– evitare un coinvolgimento attivo dei genitori, non addormentarlo in braccio, né cullarlo finché si addormenta.
Se il bambino si abitua alla presenza costante del genitore, avrà sempre bisogno di questa condizione per dormire e farà fatica in futuro a diventare autonomo nell’addormentarsi. Il genitore può aiutare il sonno dando al piccolo un oggetto di consolazione, per esempio un peluche;

– abituare il piccolo a non addormentarsi sempre mentre lo si sta allattando, poiché con il tempo assocerà l’atto di succhiare con quello di dormire e sarà molto difficile per lui addormentarsi in modo diverso;

– aiutare il bambino a percepire la differenza tra giorno e notte, ad esempio facendolo dormire in stanze illuminate di giorno dove può sentire i normali suoni o i rumori della casa e preferire invece un ambiente buio e silenzioso per la notte;

– interpretare i segnali di stanchezza del neonato prima che diventi irrequieto o piagnucoloso per aiutarlo a trovare la situazione ideale per riposare.

Dott.sa Elisa Abbate

Allattamento e psicologia

L’allattamento rappresenta un tema delicato e di fondamentale importanza tra le
neomamme. Secondo le linee guida dell’organizzazione Mondiale della Sanità è
consigliabile un esclusivo allattamento al seno per i primi sei mesi di vita del
neonato, da protrarre eventualmente finché mamma e bambino ne avvertono il
bisogno affettivo (anche fino al 24° mese).
Esistono donne che rivendicano il valore dell’allattamento al seno, e madri che non riuscendo ad allattare naturalmente vivono il proprio essere mamma con un senso di colpa e di fallimento.
Ma in che misura l’allattamento ha una valenza psicologica determinante nella relazione che si instaura tra madre e figlio?
Winnicott (Pediatra e psicanalista britannico), sostiene che l’allattamento al seno
rappresenta la prima forma di comunicazione in grado di condizionare le successive esperienze comunicative e relazionali. Non si tratta semplicemente di offrire del latte ma di creare un legame.
In una buona relazione di allattamento la mamma impara ad osservare il bambino e a cogliere, anche inconsapevolmente, i suoi segnali come ad esempio il tono muscolare, il ritmo della respirazione, il livello di vigilanza, il calore del corpo, e il bimbo può fare esperienza della realtà e del mondo che, nei primi giorni di vita, sono la madre stessa.
L’importanza del rapporto tra madre e figlio è stata anche sottolineata da Bowlby, psicoanalista britannico ritenuto il padre della teoria dell’attaccamento. Lo stesso, in un suo studio, affermava che un neonato, alla nascita, presenta 5 pulsioni a base istintiva: succhiare, aggrapparsi, imitare, piangere e sorridere. L’attaccamento alla madre si sviluppa solo ed esclusivamente attraverso l’espressione di queste unità e alla capacità della madre di saperle integrare e valorizzare.
Da gli anni ’80, negli Stati Uniti, si comincia a parlare di “Bonding”, che letteralmente significa “cementare, attaccare, vincolare” e che sembra essere alla base della stabilità del rapporto genitori-figli. Ed è proprio con l’allattamento materno che si comincia a instaurare quel rapporto che durerà tutta la vita e soprattutto che influirà sulle capacità intellettive, sulla personalità e l’autostima del bambino di oggi e l’adulto di domani.
In base a quanto finora descritto sembrerebbe che l’allattamento al seno favorisca il bonding, ma dati scientifici ed esperienza quotidiana dicono che non è così. Alcune psicologhe dell’Università di Los Angeles hanno provato a fare il punto della situazione in ambito scientifico. La loro conclusione, pubblicata nel 2013 nel manuale Women’s Health Psychology, è che non ci sono prove sufficienti a favore di questa ipotesi. Secondo le ricercatrici è possibile che allattare al seno dia a qualche donna un incentivo in più a prendersi cura del proprio figlio, ma sicuramente non è una condizione esclusiva per formare un legame speciale con il bambino. Lo dimostra il fatto che questo legame può crearsi anche con il papà, con mamme che utilizzano il biberon o con genitori adottivi.
Sicuramente l’allattamento al seno favorisce una vicinanza particolare tra mamma e bambino, ma niente esclude che questa possa verificarsi anche se viene utilizzato il biberon.
Oltre che soddisfare il bisogno primario di nutrizione, il momento dell’allattamento è una questione di comunicazione e dialogo tra mamma e bambino: quello che conta è il dialogo intimo che si instaura tra i due: un dialogo fatto di sguardi, di contatto fisico, di odori, di suoni e parole che la mamma rivolge al suo piccolo. Per far si che possa svilupparsi un attaccamento sicuro, è importante la capacità della mamma di “sintonizzarsi” sulle emozioni del piccolo, di accoglierle in modo empatico, cercando per esempio di non reagire con rabbia e irritazione ai suoi momenti di nervosismo. Una capacità che si può coltivare giorno per giorno, indipendentemente dall’allattamento naturale o artificiale. Ed è chiaro che tutto ciò può avvenire benissimo anche se si utilizza il latte artificiale ma che potrebbe non avvenire affatto anche in presenza di allattamento al seno, se per esempio la mamma è depressa, ansiosa o stanca. Si, perché allattare mette a dura prova, può far sentire una mamma inadeguata o stanca, proprio come anche dare un biberon: prendersi cura dell’altro, al di fuori di sé, significa dare energia, regalare emozioni, donarsi fisicamente.
È intenso, ma fa parte dell’essere madre.
“Prima e più della fame, lo lega alla madre un bisogno affettivo di sicurezza. La
natura userà questo luogo in cui si stempera l’urgenza affettiva per far passare il latte.
L’incontro fisico diventa quindi il tramite attraverso cui si esprime il legame. E il
latte diventerà il segno tangibile della preoccupazione materna” (Da : “Il bambino non è un elettrodomestico” di Giuliana Mieli)
L’atto stesso di allattare al seno o con un biberon deve offrire l’opportunità alla
mamma e al bambino di sperimentare gesti, sguardi, movimenti, ritmi che vanno al di là della semplice nutrizione e che sono alla base di un profondo legame affettivo e di una sicura conoscenza del mondo.
I benefici psicologici e fisici dell’allattamento al seno sono innegabili, ma è
altrettanto vero che il legame emotivo che si costruisce allattando il bambino può essere creato anche dandogli il biberon.
Quello che fa la differenza è l’atteggiamento della mamma, che deve capire che ogni storia genitoriale è unica e l’unico consiglio è quello di impegnarsi giorno per giorno per costruire il rapporto con il proprio bambino anche attraverso semplici dettagli, come per esempio la scelta di allattare in un luogo tranquillo e isolato, creando un ambiente confortevole e mettere la propria canzone preferita mentre si allatta per essere più serene.
Molto utile può essere anche la scelta di tenere un diario quotidiano sul quale
riportare impressioni sulla giornata e descrivere le emozioni provate, così da riuscire a canalizzare quelle negative in modo più costruttivo.

Dott.ssa Elisa Abbate

Psicologa Psicoterapeuta iscritta all’albo professionale dell’Ordine degli Psicologi della Regione Marche n°1992.
Laureata all’Università “La Sapienza” di Roma in “Psicologia Dinamica e Clinica del’Infanzia, Adolescenza e Famiglia” con il massimo dei voti, ha avuto esperienza clinica e di ricerca presso il reparto di Neuropsichiatria Infantile Umberto I di Roma.
Specializzata in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale presso la scuola Studi Cognitivi di San Benedetto del Tronto con il massimo dei voti.
Ha svolto il tirocinio di specializzazione presso il Dipartimento di Salute Mentale occupandosi della valutazione diagnostica e psicoterapia con pazienti con disturbi di personalità.
Terapeuta EMDR e Socia SITCC (Società Italiana Terapeuti Cognitivo Comportamentali).
Lavora come psicologa e psicoterapeuta presso lo Studio di Psicologia, occupandosi principalmente dell’età evolutiva (psicodiagnosi, sostegno psicologico, psicoterapia individuale, sostegno alla genitorialità); come consulente psicologa presso il Centro Medici Mythril ed è socia della cooperativa H Muta operando a livello scolastico come educatrice.
È promotrice del progetto di ricerca “Educazione Razionale Emotiva a scuola” (Abbate E., Angelone L., Biondi C., Caruso C., Di Agostino C., Ionni V., Mobili A.) in cui si estendono in ambito educativo i principi, i metodi e le evoluzioni più recenti della Terapia Razionale Emotiva con l’obiettivo di valutare la tendenza a pensare ed agire in maniera razionale.

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